Palma di Montechiaro, la città Santa dei Gattopardi

"La festa del castello" a Palma di Montechiaro

“La festa del castello” a Palma di Montechiaro

SICILIA DELLE MERAVIGLIE Oggi è la terra del Gattopardo. Ieri era la terra delle alchimie, da quando Don Carlo Caro Tomasi, con l’aiuto dello scienziato Giovan Battista Odierna, il 3 maggio del 1637 pose la prima pietra della sua “Virentis Palmae”, su una collina arida, a una manciata di chilometri dal capoluogo Agrigento. La puntellò di luoghi sacri come una costellazione, mescolando iscrizioni, quadrati concentrici e i buoni auspici che l’astrologia e l’astronomia dell’epoca suggerivano. Doveva essere la nuova Gerusalemme.

Trent’anni dopo, in quelle terre vivevano meno di 5000 persone, eppure il borgo vantava già una decina di Chiese, oltre al Calvario, meta di processioni, pellegrini e sacerdoti. Il barone Tomasi non avrebbe potuto scegliere luogo migliore per costruirlo, visto che appena mezzo secolo dopo l’abate Saint-Non nel suo Voyage pittoresque scrisse: “È molto popolata ed ha una posizione incantevole: i dintorni sono pieni di giardini deliziosi e tutto questo paese è in genere di un abbondanza enorme di vigneti, di coltivazioni e di ogni sorta di alberi da frutta…. L’eminenza della collina sopra cui è fondata le fa godere un’aria molto salubre, i copiosi rivi d’acqua, che per di lei territorio scorrono, cosi apportano deliziosa vaghezza alla terra”.

Alla prima occhiata frettolosa, la Palma di oggi può sembrare solo un piccolo centro agricolo. Il mare grigio, le antiche case di malta e le chiese di tufo, che si mescolano agli edifici più nuovi, sembrano avere cancellato la principesca “dolce e disperata Donnafugata” che il penultimo dei Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, descrisse nel Gattopardo. Ma se si percorrono quelle stradelle inerpicate, alla scoperta dei luoghi vissuti dai Salina raccontati nel suo romanzo, la memoria ci riporta alla vita dorata di quel tempo, attirati da quel profumo un po’ mediterraneo e un po’ coloniale che si coglie ancora tra i vicoli stretti e le case di “malta gessosa”. Così bianca da fare sembrare nuove anche le case che sono in rovina, come le descrisse Domenique Vivant, uno dei tanti viaggiatori del Settecento.

Deve essere per questo che a Palma di Montechiaro, come a Racalmuto, Porto Empedocle, Favara ed Agrigento, fino ad arrivare a Caltanissetta, sono fiorite pagine di letteratura e di teatro di alcuni dei più grandi autori siciliani, come Leonardo Sciascia, Luigi Pirandello, Antonio Russello, Pier Maria Rosso di San Secondo, Andrea Camilleri e Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Che si possono rileggere lungo “La Strada degli scrittori”, percorrendo la SS640, che attraversa i luoghi che più hanno amato: palazzi, castelli, teatri, musei e paesaggi. Una miniera d’oro in pochi chilometri, all’ombra della valle dei Templi.

Tornando ai luoghi di culto e agli angoli più felici del Gattopardo, l’intera architettura del paese, tra Santi e antenati, celebra il profondo misticismo della famiglia Tomasi. Così la Chiesa Madre, uno degli edifici più rappresentativi del Seicento siciliano. Ricca di dipinti di pregio realizzati tra il 1784 e il 1875 da Domenico Provenzani, Gaspare Serenario e Raffaele Manzelli, la chiesa custodisce un imponente organo settecentesco, attribuito allo scultore Calogero Provenzani (padre del pittore Domenico), rimasto inutilizzato per oltre trent’anni, ma che da qualche anno fa echeggiare le sue magnifiche note, facendo rivivere l’atmosfera del tempo e la grandezza di Giulio I Tomasi. Il “duca Santo” che ripropose, con il nome “Calvario”, là dove sorgeva la chiesetta di Santa Maria della Luce sulla collina arida, la via crucis di Gesù da palazzo di Pilato al Golgota. Collegando il centro abitato all’altura solitaria in un cammino ideale e ottenendo poi per i pellegrini l’indulgenza plenaria al pari di quelli della Terra Santa. Così il monastero delle Benedettine, uno dei pochi di clausura rimasti nell’isola, il cui accesso è impedito quasi a tutti; gli oratori del Santissimo Sacramento e del Santissimo Rosario, annessi alla Chiesa Madre; e le Chiese del Purgatorio e del Collegio di Maria.

Lo stesso misticismo che si respira anche negli edifici civili. Come l’ex convento dei Padri Scolopi, oggi palazzo degli Scolopi (sede del comune), uno degli esempi più belli del patrimonio monumentale del tardo barocco; e palazzo Ducale, inglobato nel monastero delle Benedettine nel 1659 per accogliere le figlie e la moglie del “duca Santo”, che rappresenta, con i suoi otto preziosi soffitti di legno dipinti, uno dei luoghi simbolo dell’illustre passato. È lì che nelle pagine del romanzo andava a soggiornare don Fabrizio Salina con la sua famiglia, ed è sempre lì, nel giardino, che sbocciò il travolgente amore di Tancredi ed Angelica.

Il palazzo fu la prima dimora dei Tomasi duchi Palma e principi di Lampedusa, nonché una delle più preziose: vi si possono ammirare gli oggetti d’arte appartenuti alla famiglia, immagini e manoscritti dello scrittore, e fotogrammi del film il Gattopardo di Luchino Visconti tratto dall’omonimo romanzo.

Uscendo dal paese invece, l’esperienza più suggestiva arriva da due architetture militari. Torre San Carlo, costruita dal duca Carlo per difendersi dagli attacchi dei pirati saraceni e il trecentesco castello chiaramontano (leggi la leggenda), l’unico in Sicilia a strapiombo sul mare, che la gente del luogo chiama “Baia delle Sirene”. Costruito nel 1353 da Federico III Chiaramonte, il maniero passò a Manfredi II e I. L’ultimo successore fu Andrea Chiaramonte, che morì decapitato perché accusato di ribellione. Dopo la tragica morte e la confisca dei suoi beni, il castello fu trasferito per riconoscimento alla famiglia Caro, che ne cambiò il nome da rocca Chiaramonte in rocca di Montechiaro per cancellare la memoria dela precedente signoria. In seguito, Carlo Tomasi sposò Francesca Caro, ottenendo così il titolo di duca di Palma e principe di Lampedusa. Da allora la fortezza rimase in mano ai Tomasi fino alla morte, nel 1957, di Giuseppe.

Ad ogni castello la sua leggenda. La più popolare è legata alla statua della Madonna (attribuita ad Antonello Gagini) custodita nella cappella della fortezza. Si racconta che nel 1553, ottanta sciabecchi, alla ricerca di tesori nascosti e capeggiati dal pirata Dragut, luogotenente di Solimano, dopo averla espugnata, rapirono la Madonna col bambino. Ma la statua, divenne miracolosamente così pesante che non poterono salpare. In segno di oltraggio, decisero di gettarla in mare dopo avere mozzato le due teste.

Un po’ di storia Il ritrovamento di reperti archeologici del II millennio a.C. e di numerose tombe sicane conferma la presenza di insediamenti umani già in tempi remoti, i cui abitanti erano dediti all’agricoltura e alla pastorizia. Ma il primo documento della storia di Palma è riconducibile alla costruzione del Castello Chiaramontano, nel 1353, ad opera di Federico Prefoglio, e trasferito subito dopo ai Chiaramonte, da cui prese il nome.

L’atto di fondazione della città di Palma porta invece la data del 25 aprile 1637. Fu edificata da Carlo Caro Tomasi dopo avere ottenuto il 16 gennaio 1637 la “licentia populandi ” dal re Filippo IV, rinunciando al ducato appena tre anni dopo in favore del fratello Giulio perché vocato ad una vita monastica. Solo nel 1865 la città prese il nome di Palma di Montechiaro.

Di Stefania Sgarlata