Aragona, terra di solfare e Macalube con la faccia della luna

La riserva “Macalube di Aragona”

La riserva “Macalube di Aragona”

SICILIA DELLE MERAVIGLIE Raona, così la chiamano in dialetto. Borgo di solfatari, carusi e vulcanelli, con novemila anime residenti e altri novemila con la valigia in mano, alle falde del monte San Marco, in una collinetta tra il fiume Platani e quello del Salso, a due passi dal capoluogo Agrigento. Là, dove Ciàula con Luigi Pirandello scoprì la luna vicino alla miniera Taccia Caci e i carusi (ragazzi e bambini) giocavano tra i vulcanelli, aspettando lo scoppiettio delle bolle di argilla dopo il lavoro nelle cave. In quel luogo straordinario che la natura ha regalato ad Aragona, trasformandolo oggi in “Riserva naturale delle Macalube”(*). Tanto che ormai il toponimo Macalube è usato per indicare il fenomeno in generale di tutte le manifestazioni eruttive sparse nei vari continenti. Si tratta di una delle aree naturali più suggestive e interessanti al mondo per un raro fenomeno geologico di vulcanesimo sedimentario, meglio noto come Occhio di Macalube, dove sbuffano fumiganti centinaia di bocche vulcaniche, che da più di 2500 anni periodicamente agitano la collinetta espellendo in superficie fluidi argillosi.

L’intera zona sembra un set cinematografico, ma è tutto vero. Sembra un altro pianeta: è così che dalla terra immaginiamo la crosta della luna. Il paesaggio, surreale, grigio, polveroso e per certi versi inquietante, ha ispirato molti scrittori, da Deodat De Dolomieu che nel 1700 li descrisse come “Scosse di terremoto violentissime, che si fanno sentire a due tre miglia di lontananza seguite da un rombo di tuono sordo e sotterraneo, quindi hanno luogo numerose eruzioni che lanciano in aria terra, fango e argilla liquida unita a sassi…”, a Guy De Maupassant che, un paio di secoli più tardi, descrisse i vulcanelli come “pustole di una terribile malattia della natura”.

Molte anche le leggende legate alle Macalube perché un tempo era difficile ricondurre alla scienza certi fenomeni. Secondo una delle tante fantasticherie, il liquido fangoso che zampilla dalle sue bocche è sangu di li saracim (in siciliano il sangue dei saraceni) che scorre dal 1087, a seguito di una sanguinosa battaglia tra arabi e normanni. Un’altra leggenda vuole che in quella collina sorgesse una città baciata dal sole e dalla prosperità, incapace però di mostrare gratitudine alle divinità che le avevano donato una tale ricchezza. Per questo, fu inghiottita e al suo posto apparvero quelle piccole protuberanze sbuffanti.

A pochi passi dalla riserva c’è Aragona, dove vale la pena arrivare per una passeggiata tra le chiese e le vie del centro storico per visitare il bellissimo Palazzo seicentesco dei Principi Naselli, che conserva affreschi attribuiti al gruppo di pittori del fiammingo Guglielmo Borremans (1670-1744). Oggi è occupato per metà dal municipio e per l’altra metà dalle suore di Carità.

Sono tante le chiese che s’incontrano, alcune delle quali custodiscono tesori d’arte: come il SS. Rosario, con la sua meravigliosa urna d’argento commissionata dal principe Baldassare Naselli per conservare la reliquia della Sacra Sindone (la leggenda); la chiesa barocca sconsacrata del Purgatorio; quella del Carmine, con la statua lignea di Salvatore Bagnasco raffigurante San Giuseppe; e la Chiesa Madre, dove si trovano alcune opere di Frà Felice da Sambuca (1734 -1815) e un presepe ligneo del tardo Settecento.

Quando si popolò, Aragona era solo un villaggio al servizio delle miniere di zolfo, la “Pietra che brucia”. Era stato messo su come una camerata, pronta ad accogliere nelle tenebre della sera uomini e carusi per restituirli la mattina di buon’ora allo scuro delle solfatare. Non c’era sole e non c’era luna per loro. Quando i giacimenti chiusero, giovani, vecchi e bambini lasciarono il paese per fare lo stesso lavoro. I più, dalle miniere di zolfo passarono a quelle di carbone, soprattutto in Belgio tra Liegi, Charleroi e La Louvière, dove oggi vivono circa 4000 aragonesi. Ma anche in Francia e in Germania, dove diventarono uomini-carbone. Mentre altri inseguirono il sogno americano verso la “Merica bona” (quella del Nord) e la “Merica tinta” (quella del Sud) alla ricerca dell’american dream, finendo invece per fare i lavori più umili e faticosi: scaricatori di porto, braccianti, stagnini. Se andava bene ambulanti o fruttivendoli.

Qualcuno torna ancora d’estate con mogli e figli che parlano francese, tedesco o americano, il tempo di una vacanza. Hanno imparato a convivere con la nostalgia. Altri ce l’hanno fatta a rimanere, come Nino Seviroli, emigrante di ritorno tornato da La Louvriere con la moglie di Porto Empedocle conosciuta là, in Belgio. Ora dirige la biblioteca comunale nella chiesa sconsacrata del Purgatorio, ma il suo mestiere forse è un altro. Racconta e canta di emigrazione (il video) con gli stessi occhi neri, piccoli e lucidi di chi rimase sepolto per sempre dentro quelle fatiscenti miniere che ogni tanto crollavano e di tutti quelli che la sera puntano ancora gli occhi alle stelle (leggi una storia) aspettando di rivedere un parente. Non smette di raccontare Nino. Non si stanca mai. Quando lo incontri, è un fiume in piena di storie di cugini, amici e zii con il cuore spezzato a metà, tra il loro “nuovo mondo” e gli spruzzi delle Macalube, tra la piazza del paese e le loro vecchie case dove abitavano da bambini, lasciate intatte e sempre pronte ad accoglierli al prossimo ritorno. Perché un pezzo di Aragona è sempre lì ad aspettarli, nelle terre di quel villaggio. Con le sue chiese, le stradine, le m’briulate (fagottini di pane farciti con olive nere, cipolla e salsiccia) e il taganu pasquale (a base di pasta, tante uova e tuma filante). È sempre lì la loro Raona, dal 1606. Da quando, su licenza del viceré spagnolo Don Lorenzo Suarez de Figueroa e Cordoba, il giovane conte del Comiso Baldassare Naselli cominciò a popolare il suo feudo Diesi, chiamandolo Aragona, come la madre, donna Beatrice Aragona Branciforti. Trasformandolo presto in un principato, che fu governato dalla sua famiglia fino 1812, anno in cui fu abolito il feudalesimo.

La leggenda della Sacra reliquia della Sindone

Un mistero tra fede e scienza Sono in molti a raccontarlo e a crederci. Ad Aragona, ogni Venerdì di marzo durante le festività pasquali, quando la reliquia della Sindone viene esposta in Chiesa, la tintura si fa “assai carica di vermiglio colore”, come a ricordare il sangue di Cristo.

La storia risale al 1656, quando Giulio Tomasi di Lampedusa, fondatore di Palma di Montechiaro, riuscì ad ottenere dai Savoia una copia estratta dall’originale della Sacra Sindone di Torino.

Più tardi, nel 1684, la figlia del principe di Aragona Baldassare IV Naselli, Melchiorra, sposò il figlio di Giulio Ferdinando I Tomasi. Con il matrimonio ottenne un frammento del sacro lenzuolo. La reliquia fu poi modellata dall’argentiere palermitano Omodei, che realizzò un reliquiario pendente, chiuso in una piccola cornice decorata con smalti neri su oro. Fu custodito prima nella chiesa Madre, poi in altre chiese finché scomparve alla fine degli anni ’60. Fu ritrovato per caso nella cripta della Chiesa del Rosario durante l’ultimo restauro.
Già nel 1700, resoconti storici parlavano dell’esistenza di due piccoli pezzi della Sindone che si tingevano di rosso ogni venerdì di marzo quando venivano esposti in chiesa. Ma ancora oggi, sono in molti a testimoniare che il fenomeno si ripete ogni anno senza che nessuno abbia mai spiegato cosa accade realmente.

di Stefania Sgarlata

(*) L’accesso alla riserva nell’area interessata dal fenomeno dei vulcanelli al momento non è visitabile a caua di un drammatico incidente.