Una vita a testa in su

Aragona, Chiesa del Purgatorio

Aragona, Chiesa del Purgatorio

Era una domenica di fine luglio del 1949 sotto il cielo stellato di Aragona. Francesca e Giuseppe Giuseppe, che abitavano nella “scinnuta del cannolo Pulselli”, chiaccheravano seduti sulla gradinata insieme a Pippino, il più grande dei tre figli. Come ogni sera, puntarono gli occhi in alto verso la palla di pietra della Chiesa del Purgatorio, là dove s’affacciava una stella, la stessa che si vedeva in capo a tutta “Raona”. Era “bedda”, luminosa e bianca.

Fu allora che Pippinu disse a sua madre: “Voglio andare a ‘travagliari’ all’America bona, a ‘Novaiorca’”. Era nella New York ricca che voleva andare a lavorare Pippinu. Perché lì, a quei tempi, si diceva che gli anziani ringiovanissero “travagliannu” (lavorando) e i più giovani diventassero vecchi facendo fortuna. “Mamà”, incalzò Pippinu, “non voglio essere tra quelli che se la passano male all”America Zuela’ (l’Argentina). Quella è l’America “tinta” (povera). Lì gli anziani diventano subito vecchi di ‘travagliu’ e quelli giovani come me “travagliuni” aspettando di diventare anziani. E poi non tornano più”.

Aveva quasi trent’anni a quel tempo Pippinu. Aveva preso la sua decisione: voleva essere come i suoi amici emigrati che ogni anno tornando a “Raona” (dal Belgio, dalla Francia, dalla Svizzera, dall’Inghilterra o dalla Germania), sfoggiavano macchine lunghe e colorate con le code di volpe appese, suonando nella piazza il clacson con la tromba perché avevano avuto successo.

Così, una mattina di metà settembre, Francesca e Giuseppe lo accompagnarono al porto di Palermo a prendere il “bastimento” (la nave) e partì. Mamma Francesca tornò a casa ad Aragona e si vestì a lutto.

Pippino arrivò nel “Paese straniero” e si mise subito “a travagliari”. Dopo qualche mese, una sera si affacciò alla finestra e vide una stella bianca bianca. Ne parlò con un suo conterraneo più “istruito”. Che gli disse: “Certo Pippinu, sicuramente è la stessa ‘stidda’ che si vede al paese tuo. Siccome è grande, come ‘affaccia’ là, ‘affaccia’ pure qua”. Pippino ora era sicuro. Prese carta e penna e scrisse a sua madre: “Cara mamma, la ‘stidda’ che Vossia (Lei in segno di rispetto) guardava con papà dai gradini del Purgatorio è la stessa ‘stidda’ che io vedo dalla finestra di casa mia, a ‘Novaiorca’. Cara mamma, sai che ti dico? Tutte le sere prima di andare a dormire mi affaccerò dalla finestra, guarderò la ‘stidda’, mi farò il segno della croce e ti dirò: ‘sabbenarica’ papà, ‘sabbenarica’ mamà e mi andrò a coricare”.

La lettera arrivò a “Raona”.Tutte le sere, Giuseppe e Francesca “alla scinnuta del cannolo Pulselli”, con la testa in su puntarono il cielo cercando di afferrare la “stidda” di “Novaiorca”. Ma Pippinu da quel “Paese straniero” poté tornare solo una volta e Francesca quel lutto non lo tolse più.

Di Stefania Sgarlata

 

*Un ringraziamento speciale al nipote di mamma Francesca, Nino Seviroli, direttore della biblioteca comunale di Aragona, nonché attore teatrale e cinematografico