Dal secondo dopoguerra agli anni ‘60 del Novecento

All’indomani del secondo conflitto mondiale, con il paese che si rialzava e lentamente cercava di guarire le ferite della guerra, il flusso migratorio riprese gradualmente. Furono ben 7 milioni gli italiani che partirono durante tutto l’arco di questa nuova fase, che si concluse grossomodo con la fine degli anni ’60.

A partire dal 1945, il numero annuo di emigranti raggiunse una media di 300.000 persone. In questo contesto, la Sicilia fu la seconda regione per numero di espatri (solo di poco inferiore a quello della Calabria). A lasciare la propria terra per destinazioni transoceaniche, nel triennio 1946-48, furono circa 21.000 siciliani.

 

In cerca del “miracolo economico”

Da lì a poco si sarebbe aperta una nuova fase per l’Italia, che avrebbe cambiato tanto la vita in patria quanto le modalità di emigrazione. Nel fenomeno iniziano infatti ad emergere delle differenze rispetto al passato. Se nel primo decennio del dopo guerra il 50 % dei migranti continuò a spostarsi verso mete extraeuropee, con l’avvento degli anni Sessanta la situazione mutò radicalmente. Tra il 1961 e il 1965, l’85 % non varcò i confini del continente.

L’avvento del miracolo economico comportò anche la ridefinizione dell’area di provenienza degli emigranti, che prima della guerra coincideva con l’intero territorio nazionale e che, da questo momento, avrebbe interessato quasi esclusivamente le regioni meridionali. Dei 4 milioni di persone che lasciarono la propria terra a partire da questo decennio, 1 milione proveniva proprio dalla Sicilia.

Le destinazioni furono soprattutto le aree industrializzate del Nord Europa. Si raggiungevano Francia, Svizzera, Belgio e Germania, con l’intenzione di rimanervi temporaneamente, spesso soltanto per qualche mese. L’obiettivo era infatti quello di guadagnare e in seguito costruire un futuro migliore nel proprio paese, cosa che molti fecero in seguito, a cominciare dagli anni Settanta. La Germania, in particolare, accolse quasi tre milioni di italiani, a seguito del patto di reciproco impegno sul tema della migrazione, siglato con lo Stato italiano nel 1955.

Ad accomunare quanti espatriarono durante questo periodo con i predecessori della prima grande emigrazione, furono i sentimenti a cui si accompagnava la partenza, ma anche i pregiudizi e il duro lavoro che poteva costare anche la vita. In Belgio, dove si giungeva per lavorare in miniera, l’affluenza di lavoratori dal nostro paese si arrestò a partire dal 1956, anno del disastro di Marcinelle. Nell’incendio divampato nella miniera morirono 262 uomini, di cui 136 italiani.

Un’altra novità di questa fase storica è il delinearsi, già a partire dagli anni ‘50 e ’60, di un’importante migrazione interna verso il triangolo industriale italiano, che da solo accolse 2 milioni di individui. Ne furono protagoniste due categorie principali: da una parte giovani benestanti, che lasciavano le campagne per motivi di studio, dall’altra quanti si trasferivano dal Sud o dal Triveneto verso le città industriali del Nordovest. Questi ultimi erano generalmente giovani maschi sposati (o in procinto di farlo) con basso titolo di studio, a cui seguirono le donne per il ricongiungimento familiare.

 

I legami indissolubili, nonostante la distanza

La portata del fenomeno migratorio italiano, per la lunga durata (seppure con fasi alterne) e il grande numero di persone che ha coinvolto, fa del nostro paese un caso unico nel panorama europeo. A legare tutt’oggi gli immigrati e gli oriundi italiani sparsi nel mondo, che si sono perfettamente integrati nella comunità e nella cultura locale, c’è un profondo e radicato sentimento di appartenenza alle proprie origini che continua a trasmettersi di generazione in generazione. A tutto ciò hanno contribuito anche le associazioni culturali, di mutuo soccorso, di assistenza e di servizio, costituitesi nel corso di oltre un secolo per supportare i nostri connazionali tra integrazione e memoria.