Il tesoro maledetto

campagna siciliaLui, lei e l’altro a Milocca, nel paese delle “robbe”. E poi gli otto figli: i meno fortunati colpiti da morte violenta e quelli più fortunati che emigrarono facendo perdere le loro tracce, ma sopravvissuti ad una lunga storia di degrado, banditismo, omertà e disonore.

Accadde a Milena, tra la fine del 1800 e il 1900, quando il giovane e mite  contadino Damiano Manta sposò l’esuberante Concetta Serrao. Dal matrimonio nacquero quattro figli, ma non c’era casa o stradella in cui non si bisbigliasse sulla relazione della giovane moglie con Rosario Scozzaro, noto per la sua prepotenza. Damiano sapeva del tradimento e di essere deriso da tutti in paese, ma per amore dei figli si rassegnò presto a quell’onta, sopportando in silenzio. Finché arrivò quel giorno maledetto, che fu l’origine di una lunga scia di sangue.

Era inverno, un giorno di grande freddo, Damiano si trovava a Rocca Ranni, quando vide due uomini a cavallo dirigersi lentamente verso una grotta con fare circospetto; fermarsi, staccare dalla sella la bisaccia, scomparire dentro la caverna e uscire poco dopo senza il grosso sacco, allontanandosi velocemente.

Incuriosito, ma troppo insicuro dei pericoli per andare a ficcanasare, il giovane Damiano decise di tornare a casa. Ma era così assillato da quel ricordo da non riuscire a dormire: la notte gli regalò quel coraggio che la luce del giorno non gli aveva concesso. Così, al primo sole dell’alba sellò il mulo e si diresse verso la grotta. La raggiunse, e con l’aiuto di una torcia entrò nella cava. Rovistò e rovistò finché trovò la bisaccia. Era piena zeppa di monete d’oro e d’argento. Spaventato, sellò subito il mulo per andare verso casa, in contrada Zubbio.

Deciso a non dire nulla alla moglie infedele, che avrebbe rivelato la sua scoperta al suo amante, sotterrò il tesoretto nell’orto, tra le pale dei fichi d’india. Convinto che tutte quelle monete fossero il frutto di una rapina,  per non insospettire, decise di far passare un po’ di tempo.

Trascorse qualche anno, ma la sua paura era sempre lì in agguato. Damiano non sapeva come spendere quel denaro senza dare nell’occhio. Allora, decise di confidarsi con un’amico, che gli suggerì di conservare la parte più consistente del bottino in banca e godersi il resto a poco a poco. E così fece: Damiano ne tenne un “mitatedda” (una piccola parte) per le piccole spese di casa e raccontò alla moglie di avere trovato tutte quelle monete dentro un fiasco mentre zappava la terra.

Ma quello che temeva anni prima accadde. Giorno dopo giorno, Concetta ne faceva sparire un gruzzoletto per regalarlo al suo Rosario. Damiano, diventato ormai uomo molto accorto, se ne accorse e fece sparire il fiaschetto nascondendolo in un gradino della scala di casa. Da quel giorno Concetta cominciò a odiare il marito a tal punto da affidarsi alle arti magiche di una “zanna” (zingara) per farlo morire in cambio di quattro tumuli di frumento, metà subito e l’altra metà dopo la morte. Ma gli strali della “zanna” non funzionarono, Damiano non moriva e il rancore di Concetta montava.  A quel punto le serviva un nuovo piano.

La storia racconta che il giovane milocchese morì tra i fichi d’india del suo campo per una fucilata e che il denaro si perse miseramente con il segreto del suo nascondiglio. Del suo omicidio fu accusato Rosario, che si difese in tribunale dichiarando di avere scambiato la sua vittima per un cane. Gli credettero.

Una volta morto Damiano, Concetta sposò Rosario, da cui ebbe altri tre figli: Pietro, Calogero e Giuseppina. Nati in un ambiente malavitoso, erano già destinati alla povertà più severa e al degrado sociale e morale delle periferie più impervie. Vissero anni difficili e “silenziosi”, piegati all’omertà e alla violenza di una lunga schiera di morti.

Il primo a morire, il 29 aprile del 1920, fu Pietro. Gli tagliarono la gola in una bettola. Si racconta che il padre Rosario lo avesse poi vendicato uccidendo i locandieri (marito e moglie) e i due complici. Un anno dopo l’assassinio scomparvero nel nulla anche Luigi Mistretta (detto Pico) e il suo amico Vincenzo Scannella. Si disse che la scomparsa fosse legata alla morte di Pietro Scozzaro. Subito dopo furono assassinati anche Genco Salvatore (detto Stampa), ritrovato strangolato, e Giuseppe Messina (detto Immordino), ucciso a colpi di pistola vicino casa. Si ipotizzò che fossero stati eliminati per evitare testimoni degli omicidi precedenti. Non ci fu giustizia per nessuno nelle sentenze dei tribunali. Rosario Scozzaro, malavitoso incallito e violento, fu arrestato per condanne irrisorie, legate all’associazione a delinquere.

All’età ventisei anni, anche il figlio Calogero morì. Fu ammazzato per vendetta a Canicattì e il suo assassino non fu mai scoperto. Si disse che fosse morto per mano dei figli di uno stalliere che il figlio di Concetta aveva ucciso senza motivo dopo avergli rubato delle mucche.

Giuseppina, invece, si era legata ad un amico del padre, Giuseppe Lo Porto di Santa Caterina, che l’abbandonò dopo averla messa incinta di una bambina. Per il disonore, la ragazza cercò di ucciderlo, ma riuscì solo a ferirlo. Fu arrestata e condannata a una pena leggera. Quando uscì dalla galera, nonostante l’accaduto, i due amanti tornarono insieme per un paio d’anni. Nacque una bambina, ma lui non la sposò mai. Giuseppina costruì la sua famiglia con un altro uomo, da cui ebbe altri figli.

Concetta Serrao si spense nella sua casa della Roba Grande nel 1933. Due anni dopo, espiata la sua pena, morì anche il marito Rosario Scozzaro, tornato a  vivere a Milocca con Concetta. Dei figli di Giuseppina non si è saputo più nulla. Si racconta che fossero emigrati lontano.

 

Di Stefania Sgarlata

Un rigraziamento speciale a Giuseppe Palumbo, direttore del museo archeologico Petix