C’era una volta Funtana Di Li Rosi

campofrancoNon molto lontano dalle rive del Platani, tra il fruscìo e la melodia del vento che accarezza i granai dei campi, si estende nel cuore della valle un piccolo paese, di quasi tre mila anime, ricco di storia, tradizioni e ricordi di un passato florido e mai ceduto alle braccia dell’oblìo.

Sembrerebbe l’incipit di una fiaba con un “C’era una volta” ma la storia di Campofranco o “Funtana di li Rosi” è da considerarsi tale; un testo scritto dalle vite di baroni e principi che da bravi demiurghi di storia hanno plasmato una porzione di terra in un centro abitato. Siamo nel lontano 1549, la famiglia dei Baroni Del Campo che, in quel periodo, a causa di una serie di disavventure legate al nome di Cesare Lanza1, perdono il baronato di Mussomeli, rimanendo soltanto in possesso di quattro feudi: Lo Zubbio, Castelmauro, San Biagio e Fontana di li Rosi. I Del Campo si ritirarono alla vita privata sino a quando Giovanni, il più giovane della famiglia, decise di risollevare le sorti della casata, popolando uno dei suoi feudi. Alla fine del XVI secolo mancavano ancora trent’anni e nelle contrade dei comuni della Valle del Platani circolava la voce che il Barone più giovane offriva un terreno gratuito, con una conseguente esenzione d’imposte sul grano e sugli animali, ai contadini ed artigiani che si recavano sul poggiolo del feudo “Funtana di li Rosi”.

Il Governatore Don Giovanni Lo Burgio, per rendere più accogliente il nuovo borgo, fece spianare il terreno davanti al castello destinandolo a “piazza grande” mentre di fronte, nel pendio, fece erigere la chiesa madre dedicata a San Giovanni Evangelista. A cingere la vasta piazza sono state le prime vie ove i contadini cominciarono la costruzione delle case, solitamente ad un piano. Una struttura architettonica che ha condizionato le edificazioni del paese negli anni a venire. L’amenità del luogo e la bellezza del paesaggio hanno contribuito al progressivo espandersi della popolazione.

Il 10 Febbraio del 1573, Filippo II di Spagna, figlio di Carlo V, sotto la cui dominazione ricadeva la Sicilia, invia delle lettere regali a “Jo el Rej Filippo a Jovanni lu Campo” con la licenza e l’ordine di chiamare il feudo ormai rinnovato col nome di “Campofranco”. I Del Campo reggono il paese sino al 1622, fino a quando l’ultima baronessa Eleonora Del Campo, nota per la sua bellezza e grazia, sposa il giovane Don Fabrizio Lucchesi Palli, della famiglia di Sciacca e di Naro che nel 1625 ottiene da Filippo IV il titolo di Principe di Campofranco. I Lucchesi discendevano da un nobile rampollo toscano di nome Andrea, barone del Castello Trepalli, sito nei pressi di Lucca. Essi si annoverano tra le famiglie baronali più facoltose in Sicilia e la loro potenza giunge all’apice tra il ‘700 e l ‘800, culminando con il potere civile, religioso e culturale di Antonio Lucchesi Palli che promosse l’Accademia della Galante Conversazione nel 1760. Il nipote Antonino Lucchesi Palli (nato il 23 maggio del 1781 da Emanuele Lucchesi Palli e da Bianca Filangeri, figlia del principe di Cutò), il 30 luglio del 1800 sposa Francesca Paola Pignatelli, figlia del duca di Monteleone. Il 26 luglio 1805 è investito dei feudi e dei titoli di principe di Campofranco e duca della Grazia, quale erede universale del nonno Antonio, essendo morto il padre Emanuele nel 1795. Nel 1810 è deputato del Regno borbonico per il braccio militare.2 La numerosa discendenza dei Lucchesi non porta miglioramenti determinanti alla crescita del paese.
Nel corso dei secoli, il feudalesimo con le sue angherie è stato causa di rivolte da parte del popolo ed in seguito stroncato con la forca. Campofranco ha vissuto lunghi periodi di carestia, la peste e il colera (che nel 1887 ebbe in Edmondo De Amicis un cronista d’eccezione). 3 A seguito dell’epoca dei Viceré e dello scoppio della Rivoluzione Francese, nel 1812 Campofranco conosce il nuovo ordinamento e, per la prima volta, i suoi cittadini sono chiamati ad eleggere i giurati del Consiglio Civico presso la Chiesa Madre S. G. Evangelista. In epoca moderna con lo stabilimento dei sali potassici della Montecatini, con la miniera di Zolfo Cozzo Disi (oggi entrambi chiusi) e con altre piccole attività industriali, Campofranco ha finalmente conosciuto un periodo di benessere ed è riuscito a frenare la piaga dell’emigrazione che con i tempi attuali di recessione è tornata a falciare la popolazione (nel 2002 gli abitanti sono scesi a 3640 unità, nel 2012 a 2800 unità). Oggi l’unica importante attività industriale si muove nel campo della produzione del gesso e dei suoi derivati. L’agricoltura, attività ormai marginale, viene praticata solo da aziende a conduzione familiare con coltivazioni di frumento, vigneti, uliveti, mandorleti e agrumeti. 4

 

1 La leggenda narra che ad uccidere la Baronessa di Carini e l’amante Ludovico Vernagallo sia stato il padre, Cesare Lanza, Barone di Trabia e Conte di Mussomeli.

2 Almanacco Reale delle Due Sicilie, 1822-1850; Atti del Parlamento delle Due Sicilie, 1820-1821, a cura di A. Alberti, I, Bologna 1926, p. 402

3 V. Alabisio, “Viaggio in Sicilia – Campofranco”, Ed. Ariete, Palermo, 1999, pp.4-6

4 V. Alabisio, op.cit., pp.22-23

 

Fedeli a Calogero, correte fidenti…

Intorno agli anni 1618-1620 si sviluppa a Campofranco, grazie all’intervento del principe Fabrizio Lucchesi Palli e con la collaborazione dei frati dei conventi di Naro, un culto ad un nuovo santo, per la cittadina devota a Maria SS. Hodigitria, quello di San Calogero eremita, già fiorente nella diocesi di Girgenti, Sciacca, Naro e Canicattì. Lo stesso principe impone idealmente le basi di questa nuova devozione e pone la sua terra sotto la protezione di San Calogero. Inizia un triste periodo per il piccolo borgo che è quasi vicino al secolo di vita. Aggraverà la situazione il colera che al 1672 si porterà via 333 campofranchesi.

In seguito il paese resterà immune alla calamità naturale del terremoto del 1693 e la cessazione immediata di tale fenomeno senza nessuna conseguenza catastrofica, viene storicamente e spiritualmente attribuita ai poteri taumaturgici di San Calogero. Infatti, da quel fatidico 11 gennaio 1693, Campofranco ringrazia Calogero per averlo preservato dalla rovina del terremoto ed impetra il suo aiuto per essere liberato da ogni male fisico e spirituale. L’intero mese di luglio è dedicato al Santo: ogni sera, una folla di devoti assiste alla messa nella chiesa dell’antico convento francescano, recita il vespro e canta “Fedeli a Calogero, correte fidenti, mentr’egli sa compiere sublimi portenti” e l’ultima domenica del mese si reca al santuario a” piedi nudi”. Fino ad alcuni anni fa il “viaggio” a piedi scalzi con il rosario in mano si completava nella chiesa con la “lingua a strascinuni”, dall’entrata fino all’altare maggiore. Oggi restano gli abitini bianchi con i bottoni neri per i bambini, la raccolta delle offerte per una “missa cugliuta”, le grandi forme di pane, anche a decine di chili, che riproducono a volte le gambe, le braccia o altre parti del corpo guarite, altre volte l’intera sagoma del Santo. Da qui nasce la tradizionale Sagra dei Pupi di pane, momento in cui il pane benedetto, che richiama iconograficamente il Santo, viene distribuito ai fedeli o ai tanti visitatori che seppur permeati da un alone di scetticismo, si recano per curiosità o perché speranzosi di ritrovare quella fede perduta.

Per gentile concessione di Veronica Di Carlo